L’ultimo racconto del “Paese dei Senza” si intitola “Amina” e nasce dal ricordo di un avvenimento che mi ha molto colpito, il cui dolore riaffiora con forza per le vicende di questi ultimi anni.
Circa vent’anni fa è approdata sulle coste della Puglia una ragazza di colore in fin di vita, unica superstite di un barcone di vite disperate che durante il viaggio hanno trovato la morte.
Ci sono voluti molti giorni prima di poter dire che la ragazza era salva, tra un su e un giù di notizie, come se stesse percorrendo un labirinto senza trovare la via di uscita.
Quanta fatica le è costato quel viaggio attraverso il Mediterraneo e quanto dolore!
Il suo nome era Amina
(…) Amina viveva a Tamarpindi, un paese dove la vita scorreva lenta e uguale da sempre, come se il tempo si fosse adagiato, poi assopito tra le sue montagne brulle. Le case di sassi e fango scendevano in terrazzi digradanti sul fianco della montagna, e a gruppi di cinque o sei si affacciavano su un cortile comune. Lì, al riparo delle chiome leggere delle tamerici, si ritrovavano le donne a chiacchierare, mentre cucivano o stendevano i panni o preparavano il cibo. Lì, nel pomeriggio, si raccoglievano le bambine a giocare, una volta libere dai lavori di casa e dai compiti per la scuola, mentre i grandi riposavano.
All’uscita dell’abitato alcuni carrubi offrivano ombra ai pochi viandanti che giungevano da quelle parti e regalavano i baccelli dolci e legnosi ai bambini pastore che vi facevano tappa durante il pascolo, e ai ciuchi del paese che ne andavano ghiotti.
Tutt’intorno una terra arida e pietrosa richiedeva agli uomini un lavoro duro, molto faticoso che troppo spesso non bastava ad assicurare una vita dignitosa alle loro famiglie. Per questo erano insoddisfatti, corrucciati, taciturni, e giorno e notte non pensavano ad altro che a emigrare. La meta, ormai un pensiero assillante, era una di quelle nazioni ricche al di là del mare che li allettava dallo schermo del televisore del bazar.
Là c’era tutto ciò che si poteva desiderare e che sembrava pure facile da ottenere.
Un giorno, alla fine di aprile, una tempesta di terra si abbatté su Tamarpindi. La sua violenza fu tale da distruggere non solo gran parte del raccolto dei campi, ma anche tutte le piante degli orti. In poche ore il lavoro di tanti mesi fu ridotto a un enorme gomitolo di sterpi che rotolava sotto la furia del vento.
Gli abitanti danneggiati, tra cui la famiglia di Amina, stanchi di tante fatiche inutili, si convinsero che non era possibile continuare a vivere in una terra così povera, e ormai sfiduciati presero la decisione di partire. Allora si rivolsero a certi trafficanti del mare che organizzavano quel tipo di viaggi. I loro prezzi, però, erano talmente alti che per racimolare il denaro richiesto gli emigranti dovevano lavorare ancora molto e vendere tutto ciò che possedevano.
Ma l’idea di lasciare i compagni di scuola e di sempre non andava giù ad Amina. Non voleva abbandonare il suo cortile. Lì c’erano le amiche con le quali giocare, confidarsi segreti e sogni, chiacchierare, a volte litigare e fare poi subito pace.
Le cose le piacevano così com’erano.
Che cosa avrebbe trovato in un paese straniero? Non certo Khaled, l’amico del cuore. E lei non voleva perderlo. Avevano la stessa età ed erano cresciuti insieme. Alla sua timidezza e ai suoi silenzi, lui contrapponeva entusiasmo e allegria per ogni cosa. Era così bello andargli incontro al tramonto, al rientro dal pascolo! Lo aspettava ai carrubi e, da qualche tempo, quando lui arrivava e ricambiava l’attesa con un fiore selvatico, una manciata di more di rovo, un sasso dalla forma o dal colore particolare, il cuore di Amina si metteva a galoppare felice.