Il racconto di oggi mette in luce una delle più sconvolgenti perversioni dell’uomo: la pedofilia. Ed è di un professore che parliamo, un individuo colto, che si dedica all’educazione dei bambini, oltre che alla loro formazione psicologica, come spesso accade.
Ma mentre è fin troppo facile e normale immedesimarsi nel bambino vittima del “mostro”, è estremamente difficile farlo nei confronti del pedofilo. Cosa pensa mentre adesca? Cosa sente mentre mette in opera il suo intento? Quali sono le forze occulte che lo spingono a perpetrare uno degli atti più abietti ed esecrabili del mondo in cui viviamo. Perché il pedofilo, così come il serial killer, è una “persona” ed è semplicistico e puerile etichettarlo semplicemente come “mostro”. La paura, l’ignoranza, l’incapacità ad accettare e affrontare una realtà troppo diversa dal normale, ancorché spaventosa, ci rende aggressivi, stupidi e violenti nei suoi confronti e vogliamo solo far finta che la persona non esista. Come con molti altri lati oscuri dell’essere umano, o di noi stessi, rimaniamo disorientati, spaventati, e neghiamo l’evidenza nascondendoci.
E’ risaputo che loro stessi, i pedofili, una volta arrestati e rinchiusi, chiedono di non essere rimessi in libertà, perché il loro impulso è troppo forte, irresistibile, e si rendono conto dell’atrocità commessa. E questo malgrado in carcere siano sempre oggetto di dure violenze fisiche e psichiche da parte non solo delle guardie carcerarie ma anche e soprattutto degli stessi carcerati. Il “mostro” è reietto, è solo. Da sempre lo è. E non può guarire! Senza nulla togliere alle sue vittime innocenti, vi siete mai chiesti cosa prova dentro di sé un uomo così? E per finire in quanti si chiedono perché e come mai è diventato… “il mostro”?
IL PROFESSOR MATTEI (racconto tratto da “Calma di vento”)
La ruota si staccò e rotolò giù nella scarpata. Rimbalzò per almeno ottanta metri, poi si fermò contro il tronco di un pino secco. La vecchia Ford, senza la gomma, sporgeva con il parafango anteriore destro in bilico nel vuoto di uno sterrato. Da sotto sembrava una grande bocca sdentata. La pioggia,
sottile e fredda, lambiva di rivoli silenziosi il parabrezza. Un gufo mandò il suo richiamo e svegliò la notte nel bosco.
E così stava accadendo di nuovo. Ancora una volta avrebbe dovuto fare i conti con quella parte di
se stesso che più odiava e temeva. A nulla erano valsi i tentativi reiterati fatti su consiglio del dottor
Veronelli, esimio professore di psichiatria e psicanalista di lunga esperienza. Per qualche anno erano stati utili per, diciamo così, disassuefarsi, abituarsi a gestire il suo problema, fare a meno insom-
ma di quel suo impulso incontrollato e pericoloso. Ma da quando Marisa se n’era andata per sempre
lasciandolo da solo ad affrontare la quotidianità, che per lui voleva dire fare l’insegnante, il bravo
maestro, la Bestia che aveva dentro era tornata, più forte di prima. Certo non era riuscita a sopraffarlo come era stato prima di frequentare il professor Veronelli, ma era sempre lì, in agguato. Non
se n’era affatto andata via e non l’aveva chiusa nel recinto della sua anima come aveva sperato e
creduto di poter fare. Era di nuovo pronta a venir fuori e stava diventando sempre più forte.
L’aveva sentita agitarsi dentro di sé nelle notti insonni, mentre l’immagine dell’ultimo bambino adocchiato al parco, o a scuola, alla gita scolastica, o chissà dove, lo teneva sveglio e lo faceva impazzire di desiderio.
“Stai tranquillo Aldo” gli sussurrava sempre la moglie “fai quello che ti ha detto il professore. Vedrai che poi starai meglio, abbi fiducia in te e in lui”.
Ma Marisa non sapeva, neanche il prof. Veronelli sapeva, nessuno poteva capire cosa provava lui in
certi casi, non aveva certo potuto dir loro quello che aveva fatto in passato, non potevano immagi-nare che per sei bambini lui era stato il mostro delle fiabe, il lupo cattivo, quello additato da tutti
come il pazzo criminale, malato e spietato, un essere immondo, uno schifoso viscido verme che… e adesso eccolo lì, a puntare la sua nuova vittima designata, scelta perché è così dolce… così pic-colo.
Al professor Veronelli aveva raccontato di averli seguiti, mai contattati davvero. Aveva confessato il suo desiderio, di cui si vergognava tanto, ma non che per ben sei volte…
Solo quel tipo, quel poliziotto, l’investigatore Arcuri, sì, lui, solo lui aveva capito che dietro a quelle aggressioni c’era un uomo insospettabile. Lo aveva capito dopo l’ultima storia, quella di Giacomo, Giacomino. Perché quella volta, circa due mesi prima, era stato visto fuggire via. Alcuni operai del vecchio cantiere abbandonato, che erano lì per un imprevedibile sopralluogo, lo avevano visto scap-pare dopo aver lasciato Giacomino piangente e spaventato. In fondo quella volta non era riuscito a
far niente di quello che la Bestia gli comandava di fare. Lo aveva solo accarezzato un po’, solo ab-bracciato e…
Sì, quel poliziotto era riuscito a farsi dire dal bambino che faccia aveva il tizio che l’aveva portato
via con la macchina dal giardinetto del supermercato, con la scusa di portarlo da sua mamma. C’era
un identikit ora, un po’ confuso ma somigliante. E Aldo stavolta aveva capito che forse quel poli-ziotto ce l’avrebbe fatta a catturarlo. Solo che doveva sbrigarsi perché la Bestia non voleva. Era furiosa e gli comandava di arrivare fino in fondo stavolta, di non fermarsi come negli ultimi tempi, anche se lui non avrebbe mai voluto. Sapeva che non ce l’avrebbe fatta a resisterle, che alla fine avrebbe ubbidito a lei, e al proprio impulso. Sarà stato per questo forse che aveva scelto il parco vicino alla scuola? Sarebbe stato facile per il poliziotto capire, aspettarlo e prenderlo. Fermarlo una
volta per tutte. Ma la Bestia era troppo forte, troppo furba. Per chiunque. E lui avrebbe voluto solo starsene tranquillo, come gli diceva sempre sua moglie Marisa, non ne poteva davvero più di lotta-
re: voleva solo stare in pace.
Tranquillamente seduto sulla panchina del parco cittadino adiacente la scuola elementare, Aldo a-
spettava la sua prossima vittima: Marcello… Marcellino! Lo aveva visto appena era entrato nella
classe adiacente la sua, il primo giorno di scuola, naturalmente in prima. Sapeva dove abitava, sapeva che spesso il pomeriggio, quando era bel tempo, lo lasciavano andare a giocare con gli altri nel piccolo parco giochi del giardinetto pubblico, dopotutto abitava proprio al di là della strada e la sua
mamma ogni tanto si affacciava a controllarlo. Era piccolo, mingherlino, moro e riccetto di capelli,
curioso e dolcissimo. C’erano anche altri bambini naturalmente, mamme, nonni, passanti e Aldo sapeva, sentiva, che stavolta era probabile che ci fosse anche il tenente Arcuri lì, o magari qualcuno che facesse la guardia al posto suo, perché aveva sentito della caccia al mostro scatenata per tutta la città. Come se avessero potuto controllare tutti i parchi e tutti i posti dove potevano stare i bambini.
Ma ci sarebbe voluto ben altro per catturare la Bestia.
Eccolo Marcellino.Si era fermato accanto all’altalena e guardava voglioso il carretto dei gelati.
Approfittando di un momento favorevole Aldo si alzò e si avvicinò al parco giochi, fingendo di par-
lare al telefonino. Anzi, per avvalorare la scena iniziò anche a gesticolare leggermente e nel farlo
entrò nel recinto che conduceva all’altalena. I bambini erano una decina in tutto ed erano soli in
quel punto. Certo intorno stazionavano mamme e nonni ma Aldo sapeva come fare…
Aveva iniziato a piovere forte ora e i tergicristalli quasi non ce la facevano a detergere il parabrezza. Oltretutto cominciava anche a calare una nebbiolina fastidiosa dalla cima della montagna: sicura-
mente in capo a qualche minuto sarebbe calata spessa e avrebbe avviluppato la strada.
Aveva scelto quel percorso perché voleva fuggire lontano. Non avrebbe saputo dire se lontano dal
parco o da se stesso. Era andata storta stavolta. Al momento di avvicinare Marcellino, quando già
aveva stampato in viso il suo sorriso rassicurante e stava per tendergli la mano, un altro bambino
l’aveva chiamato perché voleva andarci lui sull’altalena. E subito la madre di quel bambino s’era
girata a guardare e… l’aveva visto. La Bestia, furiosa, era stata costretta a rinunciare e gli aveva or-dinato di fuggire. Lentamente si era allontanato e, indisturbato, era arrivato alla macchina e aveva
messo in moto. Ma sapeva bene cosa sarebbe accaduto. Altre volte infatti era successo di non aver
potuto concludere. Lei l’avrebbe costretto ad aspettare acquattato nel buio la sera stessa e a prendere un altro bambino, chiunque fosse stato, il primo che gli fosse capitato, quello che anche solo per
un momento fosse rimasto solo e indifeso. L’avrebbe dovuto prendere e portarlo via in macchina,
lontano, e poi lei gli avrebbe comandato di…
La Bestianon era soddisfatta e lui sapeva come sarebbe finita. Ancora una volta.
Piangeva mentre guidava e le lacrime si confondevano idealmente con la pioggia che scrosciava ora sul parabrezza. Piangeva spaventato e urlava tutta la sua disperazione. Non sarebbe mai riuscito a sfuggirle veramente, lo sapeva. Aveva capito ormai che lei comandava e lui poteva solo ubbidire. Il poliziotto, quell’Arcuri, sicuramente era stato avvertito, perché prima di uscire dal campo visivo del parco, con la coda dell’occhio aveva intravisto del movimento e sentito voci concitate di mamme. Sarebbe arrivato lì e avrebbe iniziato a cercarlo, forse gli avrebbe fatto la posta. Era certo che in quel momento lo stava aspettando nascosto chissà dove con la visuale sul parco. Magari gli aveva lasciato qualche esca, come si fa coi cefali per farli avvicinare. Ma la Bestia non era un pesciolino, ed era molto astuta.
Chissà in quanti lo stavano aspettando appostati adiacente al parco.
Si passò una mano sul viso per scacciare le lacrime e la curva gli apparve all’improvviso. La mac-china, dopo aver sbandato paurosamente, volò oltre il guard-rail. Nessuno sulla strada.
La ruota si staccò e rotolò giù nella scarpata. Rimbalzò per almeno ottanta metri, poi si fermò con-tro il tronco di un pino secco. La vecchia Ford, senza la gomma, sporgeva con il parafango anteriore destro in bilico nel vuoto di uno sterrato. Da sotto sembrava una grande bocca sdentata. La pioggia, sottile e fredda, lambiva di rivoli silenziosi il parabrezza. Un gufo mandò il suo richiamo e svegliò
la notte nel bosco. Ebbe la visione di Marcellino e del poliziotto che lo stava aspettando.
Con uno scricchiolio la macchina si inclinò più in avanti. La Bestia urlò rabbiosa.
A quel punto lui si lasciò andare, chiuse gli occhi e sorrise.
L’autore mostra il suo talento affrontando tematiche “difficili”, riuscendo ad entrare in personaggi complessi osservando la realtà dal loro punta di vista.
Complimenti!
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Sì, credo sia importante cercare di capire cosa provano certe “persone” per poi capire e lottare contro il loro male. Grazie!
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