La settimana di… Laila Cresta

Il venerdì in compagnia di Laila Cresta prevede, per i nostri lettori, la prima parte un racconto di fantarcheologia:

 

晶洞Jīngdòng: GHEODES

 

La vigilia di Capodanno è il primo dei tre giorni di astensione dal lavoro previsti per l’occasione dalle leggi della Repubblica Cinese, ben meno della settimana che i cinesi festeggiano tradizionalmente, e Dante era invitato al ricco banchetto serale organizzato dalla famiglia dei suoi padroni di casa. Sperando che la cifra fosse considerata adeguata, preparò le tradizionali buste rosse con il regalino in denaro per i bambini, le hongbao, poi indossò un maglioncino rosso in onore della festa, e fu pronto. Sapeva che la serata sarebbe stata piacevolissima, ma cominciava molto presto e sarebbe finita molto tardi, e per questo lui aveva deciso di rimandare al giorno dopo la passeggiata che avrebbe voluto fare subito: da lontano, qualcosa lo aveva incuriosito, su, nella parete rocciosa. Studente di geologia e speleologo dilettante, Dante aveva spesso curiosità del genere.

Il mattino dopo, il giovane poté avviarsi su per la salita di buon passo, ma si accorse presto che il sentiero, che sapeva arrivare al di là dell’acrocoro roccioso, evitava la zona che lo aveva incuriosito. Tornò indietro e si incamminò di nuovo verso le rocce guardando bene attorno a sé, con frequenti occhiate alla macchia bianchissima che era diventata la sua guida. Tornò indietro ancora una volta, ma infine notò, nascosto da una roccia che quasi lo ostruiva, quello che pareva un passaggio non troppo agevole, ma praticabile. Scoprì presto che era il percorso giusto per arrivare dove voleva: una piccola cengia abbastanza in alto, sulla cui parete si notava quel qualcosa di bianco che lo incuriosiva.

Finalmente alla meta, Dante vide un’apertura che dava l’idea di una spaccatura profonda della roccia, molto antica, e toccava terra: un vero e proprio ingresso. Dante passò leggermente un dito sul bordo, e poi ancora. Era incredibilmente liscio e addirittura arrotondato. Era artificiale! Perché mai praticare nella roccia un’apertura del genere? Probabilmente, il primo “colpo di piccone” lo aveva dato la natura, poi qualcuno era intervenuto a rendere più agibile quella specie di ingresso. Per lui sarebbe stato un po’ stretto, in realtà, ma non doveva essere difficile infilarcisi dentro, data la mancanza di spuntoni di qualsiasi tipo. Avrebbe potuto provare ad allargarlo a forza di piccozza, certo, ma era restio a farlo: a parte la difficoltà dell’impresa, non voleva distruggere prima di aver visto “cosa” distruggeva. Guardò di nuovo con attenzione e notò che, immediatamente attorno all’apertura, era come se la roccia si fosse spaccata attorno a un guscio ruvido, e mostrava un bordo singolarmente bianco e liscio, come il bordo arrovesciato di una conchiglia: era quello che lo aveva incuriosito da lontano. Fece passare un braccio, con precauzione: la parete, all’interno, era tanto scabra da essere tagliente. Pareva perfino coperta di lame. Sempre più incuriosito, Dante si decise, introdusse piano la mano con la torcia, poi entrò. Il “pavimento” era talmente disuguale che rischiò di perdere l’equilibrio, e per tenersi in piedi sbatté pesantemente sul muro con la mano. Si succhiò un dito dolente e accese la torcia, sperando di non provocare il risveglio di qualche pericolosa creatura. Restò abbagliato. Dovette ripararsi gli occhi. Addirittura, armeggiò per prendere gli occhialoni da sole nella sacca, se li infilò e guardò di nuovo.

Sembrava la magica grotta di Aladino. Il sottile raggio di luce che entrava dall’esterno si frangeva in mille arcobaleni sui cristalli di quarzo che la rivestivano. La sua torcia mostrava i “gioielli” che pendevano dal soffitto e rifasciavano tutta la grotta. Parevano una serie di lunghi puntali di diamante con macchie di ghiaccio alla radice… Un geode! Un lontano terremoto, facilmente databile per un geologo, aveva portato in superficie uno di quei giganteschi geodi che il mantello terrestre custodisce gelosamente a grandi profondità, ed era un meraviglioso mostro lucente che certamente misurava parecchi metri di lunghezza. Del resto, quella zona nel nord-ovest della Cina non era certo nuova ai fenomeni sismici e le sue peculiarità geologiche attiravano esploratori e studiosi da tutto il mondo.

Per caso, la torcia illuminò quello che voleva certamente essere uno stretto sentiero: i cristalli erano stati spezzati e levigati, senz’altro proprio per rendere più agevole la camminata. Chissà come e chissà quando poteva essere successo, visto che neanche il laser riusciva ad avere facilmente ragione di cristalli come quelli. E lui che avrebbe voluto usare la sua piccozza! Si incamminò con un certo sollievo: entrando senza notare quel passaggio, si era già fatto male a una mano, ma se fosse crollato su quegli spuntoni cristallini, certamente si sarebbe fatto di peggio.

Camminò per qualche minuto. Dopo aver aggirato un grosso conglomerato lucente che pareva ostruire il sentiero, impedendo a qualsiasi raggio di luce di penetrare nelle profondità di quella specie di grotta, si rese conto di sentire un rumore, dapprima quasi subliminale, ma poi sempre più percepibile: acqua! Era uno sciaguattare leggero, ma inconfondibile. Forse il sisma che lo aveva sollevato dalle viscere della Terra aveva anche spaccato il geode in qualche punto, e la pioggia, o magari qualche torrente sotterraneo, erano riusciti a portarsi al suo interno. Pensò che doveva essere molto cauto, non sarebbe stato piacevole cadere in un lago: oltre tutto, il freddo lì dentro era intenso. Però… L’acqua si muoveva, dunque non era gelata, e cosa la faceva muovere, lì dentro, in quel buio praticamente perfetto, al riparo da qualsiasi influenza esterna? Era il suo difetto, quello di elucubrare tanto prima ancora di potersi dare delle risposte. Per questo spesso era anche distratto, e collezionava sciocchi incidenti che, in un ambiente ostile come quello sotterraneo, avevano a volte rischiato di diventare pericolosi. Come per la mano che ora gli bruciava e gli doleva, ad esempio. Naturalmente, in quel mondo di cristallo lucente e sterile non potevano esserci funghi o pipistrelli o insetti, e questo era un bene per la sua ferita, ma l’acqua dolce, che filtrava chissà da dove, era viva. Dante succhiò di nuovo il taglietto, non vasto ma profondo.

Finalmente arrivò al lago. Era lì, davanti a lui, eppure non ci credeva. La riva opposta era invisibile al raggio della sua torcia. In piccole pozze notò di sfuggita la presenza di chiazze di krill cieco, eppure in qualche modo infastidito da lui. Un piccolo “drago neotenico”, un pallido proteo probabilmente non più lungo di una ventina di centimetri, gli guizzò fra i piedi scomparendo nell’acqua. Sicuramente c’erano anche dei pesci, lì dentro, pesci con gli occhi “addormentati” sotto le palpebre immobili: niente di troppo strano, neppure per uno speleologo giovane come lui.

Dante però non fece gran caso a questo scenario abbastanza normale, perché i suoi occhi erano catturati da qualcos’altro, come un grande gioiello inatteso: al centro del lago, si alzava dall’acqua un conglomerato di cristalli che qualcuno aveva spezzato e levigato lasciandone interi solo quattro, che ora spuntavano e salivano verso l’alto, come le colonnine di un baldacchino. Al centro di questa specie di mensa c’era un cofano di pietra, grande tanto da contenere un uomo, magari in posizione rannicchiata, come in tante sepolture preistoriche. Anche se era un po’più corta, pareva il sarcofago di Garibaldi a Caprera, pensò Dante.

Un sarcofago! Avevano forse seppellito qualcuno, in quel luogo, chissà quanto tempo prima, magari un capo? E come avevano potuto far entrare quel blocco di granito nella grotta? Quanto al lago, poteva essere più recente della tomba, se tomba era, ed essere stato provocato ad arte, per costituire una sorta di cinta difensiva attorno alla sepoltura… I cristalli si riflettevano nell’acqua limpidissima, raddoppiando, e non si capiva neppure bene quali fossero solo un riflesso di quelli della volta, e quali invece i cristalli autentici che sicuramente ricoprivano anche il fondale. Nell’acqua, si notavano anche chiazze più scure il cui senso non era comprensibile, come fossero state coperte da un’impossibile ombra. A causa dell’acqua, il riverbero era incredibile, da dargli noia nonostante gli occhiali. No, non poteva andare oltre, purtroppo: anzi, doveva già tornare indietro, e mettersi in contatto con la sua associazione di speleologi. E magari anche col Governo cinese! A casa si sarebbe anche curato la mano, che sembrava dolere sempre di più.

Mentre si girava per tornare indietro, la sua torcia illuminò un bel cristallo che giaceva in terra, spezzato. Era davvero bello, piuttosto lungo, di un bell’azzurro violetto, e Dante lo raccolse senza pensarci, mettendoselo in tasca. Poi si voltò, per fare a ritroso il cammino che aveva appena fatto. Dietro di lui, l’acqua si increspò e si divise per un attimo attorno a una grossa testa, biancastra e baffuta, che subito sparì verso il fondo del lago.

Dante Remolini non era alla sua prima esperienza in grotta, e non era neppure la prima volta che veniva aspramente ripreso per la sua mania delle “passeggiate” (così le chiamava lui) en solitaire. Quando aveva trovato il geode era solo, e nessuno sapeva dove fosse: un momento meraviglioso, intimo, pensava fra sé incurante del rischio che aveva corso, mentre guardava gli uomini che si davano da fare in quel luogo che non era più “suo”. Essendo giorno di festa, probabilmente il loro sarebbe stato poco più di un sopralluogo, pensava Dante, tanto per verificare le notizie che lui aveva portato. Gli scandagli avevano già appurato che il geode-grotta era stato invaso dalla deviazione di un ruscello sotterraneo, e gli studiosi, un’équipe internazionale impegnata fino a quel momento dall’altra parte del monte, si erano convinti che l’ipotesi dello speleologo fosse fondata, e che davvero quell’invasione fosse stata provocata ad arte, probabilmente proprio per tenere i curiosi lontani dal sarcofago. In effetti, la telecamera subacquea, prima di guastarsi all’improvviso, aveva permesso di verificare che il fondale era stato in parte ricostruito: probabilmente era entrata di lì, la grossa roccia scolpita che ora spuntava in mezzo al lago. Al di là, c’era un sistema di grotte in cui gli archeologi stavano studiando tracce di vita paleolitica: finiva in un insieme di grotte-casa affacciate all’esterno, ancora abitate, e meta turistica privilegiata di quella zona. Nessuno però si era mai accorto che il ruscello deviasse, né che una parte della parete che divideva le grotte dal geode fosse artificiale. Un lavoro immane, ma non era certo la prima volta che si scoprivano antiche costruzioni megalitiche, e di inaspettata perizia tecnica. Alla fine, per avere libero e sicuro accesso al sarcofago, poggiato sulla sua “mensa” di cristallo probabilmente da qualche migliaio di anni, i ricercatori decisero di eliminare l’ansa artificiale, riportando il ruscello al suo posto.

Il primo incidente avvenne subito dopo l’inizio dei lavori: una struttura di sostegno che non avrebbe dovuto cedere crollò all’improvviso, e i due operai che vi lavoravano caddero nel lago. I danni furono limitati, ma i malcapitati furono portati all’ospedale, perché la temperatura dell’acqua aveva provocato loro un principio di congelamento. Qualcosa però non funzionava più nella loro testa e tutti e due asserivano di aver visto un mostro, qualcosa di meno che umano. O forse, di più che umano. E non bastava: secondo loro, c’erano delle strutture artificiali, sul fondale. Ipossia, sentenziarono i medici, ma Dante non sapeva niente di medicina. Lesse, sul I-Pad: “Nella fase iniziale, l’ipossia interessa i tessuti nervosi. In particolare, il cervello, l’apparato visivo e quello uditivo, sono i primi a risentire della mancanza o della riduzione dell’ossigeno. Infatti, lo scarso apporto di questo gas al cervello provoca una percezione errata dei colori, un restringimento del campo visivo e una perdita della visione centrale”. Va bene, aveva capito, ma non si parlava di allucinazioni condivise: gli pareva singolare che i due operai, nel loro stato alterato di coscienza dovuto alla scarsa ossigenazione del cervello, avessero creduto di vedere le stesse cose.

Naturalmente, fu subito iniziata la costruzione di un secondo ponte sospeso, ma una specie di “micro-terremoto” localizzato scosse subito dopo le colonnine che gli operai avevano incastrato nel greto. Fortunatamente, questa volta il tutto crollò senza far danni, salvo che alla dignità dei tecnici.

– Non basterebbe un battellino gonfiabile? – chiese Dante.

Lo studioso a cui si era rivolto fece una smorfia. Rispose:

–    Per arrivare là basterebbe, ma abbiamo bisogno di materiali. Sarebbe più comodo un ponte…

Per esplorare il fondale in quell’acqua gelida, furono portate delle tute da sub, le stesse che usavano gli esploratori antartici.

La sera di Capodanno, gli operai cinesi volevano essere a casa a cenare con i familiari, e volevano anche restare a festeggiare con loro, nonostante la paga doppia che li compensava della perdita di quella giornata, e della vigilia. L’idea condivisa era che, dopo tutto, quella tomba, se tomba era, aveva aspettato migliaia di anni, e avrebbe ben potuto aspettare un altro po’. Ci sarebbero state sfilate, danze e canti che loro aspettavano tutto l’anno, e c’erano anche le tombe degli Antenati che meritavano ben altra attenzione, e il giorno dopo dovevano avere i loro bastoncini d’incenso.

Le tute restarono vicino al lago, inutilizzate. Una sentinella, un militare annoiato e irritato di non poter andare a casa quella sera, sarebbe stato all’ingresso, e il giorno dopo gli avrebbero dato il cambio.

In quella giornata di festa, il rosso beneaugurale si sprecava per le vie del paese: rossi i lampioncini appesi in lunghe file attraverso la via, e rossi anche quelli che pendevano dagli alberi, a volte a forma di pesce. Il rosso e l’oro dominavano anche nei costumi, splendidi ed elegantissimi, e nei personaggi della “Danza del Leone” che sfilavano per la città. Su alte picche, passò davanti a Dante anche un drago lucente, e altri draghi si vedevano un po’ ovunque, di ogni grandezza: era il Drago-serpente orientale, e pareva quello trafitto da San Giorgio, si disse Dante, solo che qui era un simbolo positivo. Nelle immagini, diffuse ovunque e bellissime, il dragone era contorto in spire, e Dante pensò che esse avrebbero potuto rappresentare anche le anse del Fiume Giallo: era così grande, forte, e potente quel fiume, che solo i Cinesi avrebbero potuto dominarlo, numerosi e determinati com’erano. Inoltre, il drago aveva un tempo rappresentato la potenza del loro Imperatore: a lui spettava anche il compito di garantire la fertilità della Terra, e quindi il drago rappresentava anche la pioggia, ed erano sue, le antiche e possenti ossa che a volte spuntavano dal terreno…

Non era la prima volta che Dante assisteva ai festeggiamenti per il Capodanno, e gli piacevano molto, ma quell’anno si sentiva insofferente, e infastidito dai suoni, dalle luci, dagli odori, dai colori e persino dai fuochi artificiali che scoppiavano sulla sua testa, meravigliosi come sempre, e in certi momenti tutto un tripudio di rosso che riempiva la volta del cielo.

Dante naturalmente sapeva bene cosa avrebbe voluto fare. E cosa avrebbe finito per fare, nonostante che la mano, anche curata e fasciata, pulsasse fastidiosamente. Nella notte era troppo agitato per riuscire a dormire, ma cercava di rimandare l’avventura: sapeva che era una cosa pericolosa, e che le autorità cinesi si sarebbero irritate, e anche i suoi amici speleologi, ma sapeva anche che sarebbe andato lo stesso. Altro che festeggiare il Capodanno. E non importava l’ora in cui avrebbe dovuto muoversi, per sfuggire all’attenzione altrui: nella grotta-geode era sempre notte.

Mentre i fuochi illuminavano il cielo notturno, Dante si allontanò. Lo fermò un amico, un ragazzo del paese che studiava in città e stava passando le vacanze in famiglia.

–    Dante! Dove vai, a quest’ora! Tra poco c’è il circo! Ah! L’acrobata è fantastica, bellissima!

–    Salve, Wong. Questa sera ho… Ho mal di testa. Meglio che vada a letto.

Il ragazzo, che lo conosceva ormai da qualche anno, lo guardò con una smorfia, poi chiese:

–    Vorrai mica fare qualche sciocchezza, eh?

Dante fece una risata e distolse lo sguardo, poi negò recisamente:

–    Ma no, figurati, perché? Cosa vuoi che faccia? Ho solo un po’ di mal di testa. Ci vediamo domani, amico.

Se ne andò seguito dallo sguardo perplesso dell’altro, che infine si girò con una scrollata di spalle.

Il soldato di guardia non era solo: stava chiacchierando con una ragazza, a pochi passi dalla bocca della caverna, e i due erano evidentemente in grande confidenza. Per Dante non poteva esserci momento migliore per scivolare non visto dietro le sue spalle, e penetrare nel geode. Per accendere la torcia, aspettò di aver superato i grossi cristalli che facevano deviare il sentiero. Dall’esterno, nessuno avrebbe potuto notare la luce. Neanche la sentinella.

Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente”, si trovò a recitare fra sé, con una smorfia un po’ divertita un po’ irritata: la Divina Commedia era sempre stata una delle letture preferite di suo padre (e questo spiegava la scelta del suo nome), ed era anche una di quelle che lui amava di più, ed era stato anche preso in giro dai compagni più di una volta, per questo. Pauperesspiritu!

Finalmente, Dante accese la torcia. A proposito, cosa aveva illuminato il cammino del suo omonimo quando si era inoltrato nelle viscere della terra? Se lo chiese con incerto stupore: non ne aveva la minima idea, scoprì, ma chissà perché gli veniva in mente proprio in quel momento, con tutte le volte che era stato in grotta.

Di nuovo, il geode brillò come un gioiello, nei suoi bianchi e meravigliosi cristalli… Bianchi? Improvvisamente perplesso, il ragazzo prese dalla tasca il cristallo violetto che aveva trovato la prima volta che era stato lì. Da dove usciva, quello? Forse era caduto dalle tasche di qualche antico esploratore? Lo osservò con attenzione. Non se ne era accorto prima, ma era levigato, notò, e intagliato che chissà come avevano fatto. Aveva davvero una strana forma, come una brugola a punta esagonale. Una brugola di cristallo.

Dante guardò il sarcofago, pensosamente. L’immagine non gli appariva chiara e netta come il giorno prima: era come avvolta da una bruma che pareva levarsi da dietro il sarcofago, e i contorni parevano incerti. Il ragazzo rimise in tasca la “brugola”, prese una delle tute e cominciò a infilarsela. Si mise a chiudere tutti gli allacci, ma poi si bloccò e accese di colpo la torcia, puntandola sul sarcofago. Il rumore d’acqua che aveva sentito era uno “splash” intenso, e non capiva come potessero essere così rumorosi, dei piccoli protei. Gli venne in mente una grotta che aveva visto da bambino, con suo padre: “La Grotta del Bue Marino” la chiamavano, e si diceva l’avessero abitata delle pallide foche cieche, un residuo dell’Era Glaciale. No, anzi, un relitto abbandonato, si corresse istintivamente: gli suonava più giusto. Loro sì, avrebbero potuto essere così rumorose, entrando nell’acqua. Sperò di non vedere mai, lì dentro, i camminamenti “ad usumturistae” che avevano costruito in quella grotta, poi pensò che il geode di cristalli era molto difficilmente intaccabile: non era sostanzialmente fragile come la roccia carsica. Se la sua bellezza poteva condannarlo, la sua perfezione cristallina avrebbe forse potuto salvarlo.

Mentre così elucubrava tra sé, Dante era entrato nell’acqua trasparente. Per non toccare quel fondo che pareva irto di spade lucenti, decise di rimandare l’esplorazione del fondale: tra l’altro, non pensava che potesse essere sostanzialmente diverso dal soffitto che aveva sulla testa, nonostante le anomale zone buie. Scelse quindi di nuotare vicino alla superficie e, in non più di una decina di bracciate, raggiunse il centro del grande lago. Si issò sulla base del sarcofago, benedicendo i guanti imbottiti della tuta che gli riparavano le mani, benché il suo pulsante taglietto protestasse vivamente per la costrizione cui era sottoposto.

La “mensa” che reggeva il sarcofago era ben levigata, tanto da parere intagliata in quello che sembrava quasi un unico cristallo. Dalla tuta, Dante trasse un metro. Il blocco di granito era un metro e cinquanta centimetri di lunghezza, per ottanta centimetri di larghezza. La sua altezza era di 50 centimetri, più dieci di quello che sembrava un coperchio. La sua base di cristallo gli creava attorno una cornice luccicante larga venti centimetri e per Dante fu agevole girare attorno al blocco di pietra. Dall’altra parte, sulla “cornice” di cristallo, erano appoggiati tre incensieri fumanti. Sì, il secondo giorno dell’anno la tradizione voleva si bruciasse incenso agli antenati: dunque, qualcuno conosceva l’esistenza della grotta. Gli incensieri laterali, di bronzo smaltato e decorato a mano, erano evidentemente molto antichi. Il loro profilo ricordava un monte velato dalle nubi dell’incenso. Erano evidentemente due boshanlu (博山爐, “incensiere universale a montagna”), ma non rappresentavano monti sacri riconosciuti, come il Kunluno il Penglai: rappresentavano la montagna del geode.

L’incensiere centrale era invece un oggetto tanto nero che Dante si chiese di che materiale fosse fatto. In qualche modo, pareva persino più nero dei soliti incensieri cinesi che aveva sempre visto, tanto che i suoi particolari erano distinguibili con difficoltà. Poteva rappresentare un demone baffuto, allungato a formare il porta-incenso, col bastoncino profumato che gli usciva dalla bocca, ed emanava un profumo che prendeva alla testa, e i due bastoni da viaggio che aveva nelle mani diventavano i lati rialzati del porta incenso. Osservandolo meglio, Dante si rese conto che si trattava di un drago antropomorfo, simile a quegli uomini mascherati che danzavano per la città anche in quel momento. In quella prospettiva però pareva più un demone coricato supino, e le pieghe profonde e ondulate degli abiti lo rendevano come contorto, quasi si stesse liquefacendo. Il ragazzo lo toccò, ma l’oggetto era solido, e quest’impressione era solo frutto di un raffinato lavoro di cesello su quella che in genere era resina indurita, precedentemente modellata a mano. Poi, Dante passò la mano sulla connessione tra quello che sembrava un coperchio e la parte inferiore del sarcofago. Era praticamente perfetta, scoprì, probabilmente non ci sarebbe passata la lama di un coltello. In mezzo a uno dei lati lunghi poi, si vedeva un foro esagonale. Dopo appena un attimo di riflessione, Dante pensò alla “brugola” che aveva in tasca e posò la mano sulla tuta, ma ebbe un capogiro improvviso. Scosse la testa cercando di schiarirsi la vista. Dentro il guanto imbottito, pareva ardergli un fuoco. Gli occhi gli si chiusero e lui scivolò piano nell’acqua.

(continua)

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