Nasco a Roma nel lontano 1951, quando dal palco dell’Ariston di Sanremo Nilla Pizzi cantava “Grazie dei Fior”. Infanzia solitaria, consumata tra un turno scolastico pomeridiano di mia sorella, di dieci anni più grande, e il lavoro dei miei genitori. Scuole elementari dai salesiani, che mi hanno lasciato qualcosa di “indimenticabile”. Subisco i cosiddetti attacchi della vita, compreso un evento traumatico a nove anni che mi segnerà per sempre e mi ritrovo al liceo insicuro e con un livello di autostima praticamente azzerato. Mi sento fuori posto, diverso, e, come succede in questi casi a quell’età, sbagliato. Cerco di uniformarmi a ciò che mi circonda ma non ci riesco e vivo tutto questo come un fallimento. Non mi aiuta il fatto che attorno a me infuoca il sessantotto, a cui tento di partecipare con poca convinzione. Condivido il senso di ribellione all’ordine costituito di allora, all’ipocrisia imperante, ai falsi ideali dei più e all’imposizione di vita di una società corrotta, ribellandomi anche ai luoghi comuni e ai costumi perbenisti di allora. Ma, quando tento di spiegare ciò che sento realmente e che non corrisponde al sentire della maggior parte, non vengo capito e mi affibbiano quella che un tempo era considerata la peggiore offesa: qualunquista! Ammutolisco per intere giornate, non dico una parola neanche ai miei amici e compagni di scuola. A quindici anni mi cimento alla batteria in un complessino rock, sento di essere capace, ci prendo gusto, mi sfogo, creo qualcosa. Imparo a suonare la chitarra, più discreta, trovandoci spesso conforto. Un mio amico mi fa ascoltare un 45 giri di un complesso rock che va forte, i Beatles, che apprezzo molto, ma seguo appassionato e rapito anche un certo Fabrizio De Andre’, praticamente sconosciuto e da poco arrivato negli scaffali dei negozi di dischi. Avvitato su me stesso resto così, silenzioso e schivo, fino all’età di vent’anni o quasi, quando arriva la morte di mio padre, inattesa e destabilizzante. Di colpo tutti i miei problemi svaniscono e, rimboccatomi le maniche, mi impegno a vivere la mia vita. Mi iscrivo a medicina perché non mi piaceva nient’altro di quello che avevo studiato fino ad allora, ma una crisi al terzo anno mi blocca per qualche mese. Non riesco a vedermi come medico, anche se lo studio del corpo umano mi affascina. Vengo assalito di nuovo da dubbi, incertezze, e sfiducia in me stesso, ma, senza sapere niente di me e delle mie eventuali capacità, riprendo a studiare. Sento di nuovo di essere diverso dagli altri nelle aspettative di vita, di lavoro e, soprattutto, nei sogni. Cammino solitario nei viali dei parchi cittadini percependo la Natura come una Grande Madre, e sento di farne parte. Sogno di incontrare qualcuno con cui confidarmi e che mi capisca dentro e incontro la donna che sarà mia moglie. Finalmente mi laureo e comincio a lavorare come medico non senza difficoltà, anche perché rifiuto di sottostare a ricatti professionali e il lavoro scarseggia, ma faccio in tempo a concorrere ad un posto di ginecologo-ostetrico in ospedale. Finito il militare mi arrabatto a fare il medico generico, il laboratorista, il medico fiscale e finalmente arriva la chiamata per l’ospedale. Nuova crisi: non mi sento pronto per quello. Ma sono sposato ormai e a trent’anni non si può più dire no. E per fare cosa poi? Perciò divento medico ospedaliero, in ginecologia, perché sono affascinato dal parto e vado avanti così. All’età di trentasei anni arriva mia figlia Martina, a lungo cercata e tanto desiderata, almeno da me. Nel giro di due anni tutto cambia di nuovo. Senza accorgermene mi allontano da mia moglie e mi dedico completamente a mia figlia. Sono felice come non mai quando la sera torno a casa e m’immergo nel suo dolcissimo sorriso sdentato. Lavoro abbastanza bene, me la cavo in situazioni difficili, mi piace da morire aiutare i bambini a nascere e comincio a sentirmi nel ruolo di medico. Sono convinto di aver finalmente raggiunto un certo livello di fiducia nella vita e in me stesso, quando muore mia madre. Ancora una volta si apre un baratro e ci finisco dentro senza scampo. Seguono anni difficili e incomprensibili, perso nei meandri di me stesso. Regredisco a quando ero ragazzo, si spalancano gli armadi e ne fuoriescono i fantasmi del passato. Di nuovo mi sento diverso e solo. Comincio a fare cose strane, senza senso, e mia moglie è lontana anni luce, mentre perfino mia figlia sembra non fare più parte del mio mondo. Comincio a scrivere canzoni in segreto, accompagnandomi con la chitarra. Studio musica per cercare di scrivere ciò che compongo e mi iscrivo alla scuola di musica di Testaccio. Finalmente mi accorgo che i miei brani sono apprezzati e ne compongo una settantina. Ma non credo in quello che faccio e mi sento ancora più sbagliato. Mi rivolgo quindi ad un’analista e, all’età di quarantasette anni, scopro che tutto ciò che credevo di aver costruito è falso. I miei sogni erano solo illusioni, compreso l’amore che riponevo in mia moglie. Assisto così al crollo delle mie certezze, del castello che avevo faticosamente costruito, e alla fine siedo tremante, avvilito e demoralizzato sulle sue rovine. Nel frattempo scrivo moltissimo e dalle canzoni passo ai racconti e alle poesie. Incido un CD di diciotto brani con l’aiuto di un amico musicista e ne esce un buon lavoro, ma non mi basta per risalire la china. Scrivo per fuggire, per disperazione. Passano sette anni di angosce e solitudine interiore. Mi iscrivo a diversi laboratori di scrittura perché capisco che quello che voglio è scrivere storie, esprimere in senso letterale. Arriva la separazione da mia moglie, che ormai è un’estranea e che comincia ad odiarmi. Mia figlia si allontana con lei. Soffro molto di questo e continuo a scrivere. Non mi interessa altro, neanche andare in vacanza e ricordo che in una estate solitaria, dopo l’ospedale, scrivo ben cinque racconti in appena due settimane. Ma un giorno, quando evidentemente il mio innato istinto di sopravvivenza prende il sopravvento, poco prima dell’inevitabile fine, ritrovo il coraggio per tentare di vivere per quello che sono. Conosco una donna che mi sembra un angelo e scappo da dentro di me, rifugiandomi nella sua essenza che ha del magico. Spossato, all’età di 56 anni, mi rifugio tra le sue braccia e conosco finalmente l’Amore. Grazie a lei trovo il coraggio di ribellarmi a tutto, di accettare anche ciò che aborro di me,
e infine di apprezzarmi. Affronto il divorzio e mi riavvicino a mia figlia, che ormai vive con me. Finalmente mi sento felice di essere quello che sono. Ormai non ho più segreti per me stesso e scrivo per costruire. Arrivano così i racconti diversi, e i romanzi.